giovedì 16 gennaio 2014

"Ciao mamma". La separazione dalla madre e la costruzione del sé in preadolescenza

La nuova versione di questa pagina è qui.

Vorrei analizzare con voi come viene vissuta la dolorosa, ma vitale separazione fra madre e figlio, e la progressiva autonomizzazione di quest’ultimo, dal punto di vista delle madri e dei figli, a partire dalla mia esperienza di psicologa dello sportello di ascolto nelle scuole medie, a cui si rivolgono sia genitori che ragazzini.

Come il parto, processo intensamente vitale, è intriso di paure e di dolore, così lo è “la nascita sociale” del ragazzino, cioè il suo ingresso in un mondo sociale più ampio e meno protetto di quello della famiglia e della stessa scuola elementare: l’ingresso nella scuola media, e soprattutto nel gruppo dei pari, la cui frequentazione ed appartenenza inizia ad essere gestita autonomamente dal ragazzino.

A partire dall’analisi di un importante momento di separazione madre-figlio: la preadolescenza (12 anni), che richiama tutti i precedenti momenti di distacco, cercheremo di capire quella sensazione, da un lato, di  aspettativa, bisogno e ricerca di vicinanza, e allo stesso tempo di alterità, di separazione e di solitudine, che si sperimenta e ci accompagna per lungo tempo, se non per tutta la vita, come figli/e nei confronti della madre, e poi come madri nei confronti dei figli/e.

Iniziamo ad analizzare tale groviglio di sentimenti dal punto di vista dei ragazzini, sulla base dei loro racconti.
Nel momento in cui essi abbandonano il mondo protetto delle elementari, della famiglia, dell’infanzia, per entrare in quello più ampio e meno sicuro della scuola media, e in particolare del gruppo di pari, il primo scoglio che incontrano, con cui devono imparare ad avere a che fare è il seguente: le “prese in giro”, cosiddette dai ragazzini, che sono poi le critiche in senso più ampio, alcune delle quali colgono nel segno di una loro debolezza, altre meno – come avverrà nelle critiche che continueranno a ricevere da adulti – , ma sono espresse spesso con una certa spietatezza, e con una particolare sfumatura canzonatoria. Come se, da parte dei compagni, fosse più importante il fatto stesso di fare le critiche e di vedere se e come il proprio compagno o compagna le accetta, che il particolare merito della critica. . . se non c’è, lo si inventa: ci sono ragazzini che si lamentano del fatto che viene storpiato il loro cognome, e così vengono presi in giro, motivazione decisamente pretestuosa.

Effettivamente non è facile accettare tali critiche-prese in giro, soprattutto in quel particolare momento della vita, in cui si è spinti dalla crescita verso un difficile ma importante cambiamento: da un modello relazionale osmotico-fusionale, in cui io-bambino percepisco la mamma al mio servizio, pronta ad appagare i miei bisogni, a spianarmi la strada dalle difficoltà; ad un modello più dialettico, la relazione con il gruppo dei pari. Qui io sono uno del mucchio, in cui gli altri magari mi offrono anche complicità ed amicizia, ma allo stesso tempo non mi risparmiano critiche. Emergono le nostre differenze, e il fatto che l’altro metta al centro delle sue attenzioni i propri bisogni, non i miei, anche perché è affaccendato nella stessa crisi evolutiva, ma a modo suo.

Si può, dunque, reagire a tale cambiamento con una profonda nostalgia per un universo in cui per la mamma si è speciali, coccolati, oggetto di grandi aspettative ma anche di grandi assoluzioni.
Si può, inoltre, interpretare tale nuovo universo relazionale con una sfumatura paranoica: “ce l’hanno tutti con me”, senza rendersi conto che gli stessi rimandi critici sono riservati anche ai propri compagni.
In ogni caso si prova un’intensa sofferenza: ogni critica viene vissuta come ferita narcisistica, cioè ferita all’immagine di sé, come se portasse via un lembo di pelle. E quella spietatezza canzonatoria, con cui i compagni continuano a muovere critiche, può essere anche interpretata come un disinfettante doloroso ma necessario per curare una ferita purulenta, quindi con un valore di spinta alla guarigione e alla crescita.

Nel momento in cui  il ragazzino accetta di confrontarsi con il nuovo universo relazionale, e vi avverte anche delle potenzialità, ad es. lo sperimentarsi in un rapporto paritario, prendendo iniziative, senza dover rendere conto a mamma e papà; e asseconda così quella spinta alla crescita anche psichica, propria della sua età, affronta il secondo scoglio:
la paura di sperimentarsi in solitudine, e quindi di sbagliare, ma soprattutto il senso di colpa nei confronti dei genitori per il fatto stesso di prendere tali iniziative.

Da un lato è richiesto il coraggio di abbandonare alcune sicurezze, e di sperimentare: non mi trovo più in un mondo protetto in cui se mi comporto come mi hanno insegnato mamma e papà, sarò premiato. Nella gestione dei rapporti ad es. con il gruppo di pari devo procedere per tentavi ed errori, accettare di farlo, e trovare soluzioni.        
Ricordo una ragazzina marocchina che è venuta a parlarmi. Si sentiva ed era effettivamente vittima di prese in giro, apparentemente perché straniera, ma soprattutto in quanto impossibilitata a rispondervi, a causa di un’educazione ricevuta molto rigida, che non prevedeva espressioni di aggressività.
Ha dovuto inventarsi la possibilità di essere, più che aggressiva, determinata – dicendo ad es. “ma guardati tu!”, determinazione che non era prevista, almeno negli insegnamenti espliciti della famiglia, per quanto riguarda il comportamento sociale femminile.

Ecco dunque presentarsi i sensi di colpa nei confronti dei genitori per il fatto di non seguire più tutti i loro insegnamenti, di non appagare più tutte le loro aspettative, non per scarso affetto, ma perché si è chiamati  ad affrontare il nuovo universo sociale, a costruire la propria identità.
Ci sono genitori che si lamentano che i ragazzini rispondono loro male, o che semplicemente rispondono (ad es. “quelle scarpe sono da vecchio, non me le metto”); ragazzini che desiderano a volte uscire con gli amici, e sono meno adeguati alla programmazione degli  impegni sportivi, prima mantenuti con più coerenza.  Ragazzini che si confrontano con fratelli minori, che sembrano soddisfare maggiormente le richieste dei genitori e si sentono in colpa perché loro non lo fanno più; questo non perché non siano più “bravi bambini”, come talvolta sembrano credere, semplicemente perché non sono più bambini. Devono occuparsi di affrontare il mondo, e soprattutto di costruire la propria identità.

Come, dunque, il parto è doloroso per mamma e bambino, anche il crescere passa attraverso sentimenti dolorosi, urticanti, (ferita narcisistica, paura di sperimentarsi in solitudine e di sbagliare, sensi di colpa), ma avviene comunque, grazie alla stessa naturale spinta alla crescita; sempre che non vi siano troppi macigni che la impediscono. Tali ostacoli hanno a che fare con condizioni interne al ragazzino o legate alle dinamiche familiari, che aggravano, appesantiscono, rendono inaccettabili i sentimenti dolorosi, di cui ho parlato.

Alle difficoltà del ragazzino, in effetti, fanno eco quelle della madre, ad accettare la crescita e la separazione da lei del figlio; sofferenze materne che hanno una profondo legame e corrispondenza con quelle del minore.

La scoperta che il figlio inizi a prendere come riferimento sé o il gruppo di pari, non solo più la famiglia o la mamma, suscita innanzitutto un sentimento di paura e di ansia, in quanto si percepisce il figlio più esposto ai pericoli del mondo, al di là del proprio controllo e giurisdizione.
Tale sensazione di perdita di controllo, porta a drammatizzare i rischi e le sofferenze che il ragazzino può incontrare sulla sua strada.  Ci sono madri che esagerano la portata distruttiva di qualche piccolo insuccesso scolastico del figlio, o di rimandi un po’ duri ricevuti da insegnanti o compagni, pensando, e spesso sbagliandosi, che il proprio figlio non sia in grado di affrontarle, pensando inoltre che sia compito del genitore spostare tutte le possibili frustrazioni dalla strada del proprio figlio; mentre in realtà il compito genitoriale è sempre più sostenerlo nella sua possibilità e capacità di affrontarle.

C’è, però, un altro sentimento, che si percepisce con meno immediatezza, da parte delle madri, e di chi le ascolta, ma che risuona e ispira in profondità l’evolversi oppure lo stagnare della crisi materna:
tale sentimento è, ancora una volta, la ferita narcisistica, e il dolore della separazione: “io non sono più così importante per lui”.
Dietro alle preoccupazioni delle madri - “se mio figlio si fa trascinare dalle cattive compagnie, e diventa un bullo?” Oppure “ho paura che la ragazzina non abbia personalità perché segue le indicazioni delle amiche sul vestirsi”, “e non più le mie…” mi verrebbe da aggiungere - , si cela in realtà il dolore del distacco, del vedere il figlio nella sua alterità rispetto a me mamma, nella sua maggiore autonomia, e soprattutto nel suo avere meno bisogno di me, in un futuro prossimo non averne più per nulla.

Quella solitudine che sperimenta il figlio, crescendo e facendo delle scelte, la sperimenta anche la madre, con l’aggravio dell’essere chi subisce il distacco, in molti casi chi lo permette e favorisce, essendo comunque quella che rimane, mentre il figlio salpa verso il mondo e il futuro.
Talvolta è più difficile accettare e favorire la separazione, vedere i figli crescere, per madri casalinghe, o soprattutto per cui l’essere madri è il principale, se non esclusivo oggetto di investimento e di ricarica affettiva. Per lo stesso motivo è spesso più complesso favorire la separazione dell’ultimo figlio, perché ciò toglie alla madre definitivamente un ruolo, che non può essere facilmente rimpiazzato.
In un certo senso, più sei brava come mamma, più hai dato sufficientemente fiducia a tuo figlio e ne hai favorito l’autonomizzazione, facendogli sentire sopportabili i suoi pesi, e non scaricandogli addosso i tuoi, più lavori all’esaurimento del tuo ruolo, alla finitezza, alla mortalità del tuo essere mamma.

Abbiamo visto come madri e figli si trovino ad affrontare sentimenti simili.
Innanzitutto la paura  e l’accettazione dell’insicurezza, del procedere per tentativi ed errori, invece che sulla base di un modello già collaudato.  Ciò implica l’accettazione che la vita, propria e dei figli, non è scevra da rischi, è in fondo un’avventura - nel senso di dover affrontare ciò che avverrà (ire ad ventura) senza conoscerlo in anticipo, e quindi l’accettazione della propria ignoranza, che ci permette di procedere illuminando solo passo per passo, potendo sbagliare e dovendo talvolta ricredersi.

L’altro importante sentimento è la ferita narcisistica del passaggio  da un rapporto più fusionale, in cui ci si aspetta perfetta corrispondenza fra me e l’altro, fra i miei bisogni e le risposte dell’altro, ad una relazione più dialettica, in cui si manifestano le differenze individuali, la non corrispondenza fra le proprie aspettative e le risposte che otteniamo, e dunque la necessità di mediare.

In realtà tale passaggio non è caratterizzato da un’alternativa secca, ma da gradualità e sfumature: nel rapporto fra madre e figlio si introduce fin dall’inizio un po’ di dialettica, di coscienza dell’alterità; allo stesso tempo il rapporto di amicizia è anche un po’ fusionale, fondendo e confondendo  una parte di sé nell'altro attraverso giochi di identificazioni reciproche.
In questa prospettiva, l’inevitabile nostalgia del primitivo e primario rapporto fusionale, può trasformarsi da macigno, che blocca la crescita, in fondamenta su cui costruire un’altra relazione, dialogica, fra madre e figlio, questa sì che può essere coltivata e svilupparsi nel corso della vita, conoscendone i limiti.



Nessun commento:

Posta un commento