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Vorrei analizzare con voi come
viene vissuta la dolorosa, ma vitale separazione fra madre e figlio, e la
progressiva autonomizzazione di quest’ultimo, dal punto di vista delle madri e
dei figli, a partire dalla mia esperienza di psicologa dello sportello
di ascolto nelle scuole medie, a cui si rivolgono sia genitori che ragazzini.
Come il parto, processo intensamente
vitale, è intriso di paure e di dolore, così lo è “la nascita sociale” del ragazzino,
cioè il suo ingresso in un mondo sociale più ampio e meno protetto di quello della
famiglia e della stessa scuola elementare: l’ingresso nella scuola media, e
soprattutto nel gruppo dei pari, la cui frequentazione ed appartenenza inizia
ad essere gestita autonomamente dal ragazzino.
A partire dall’analisi di un
importante momento di separazione madre-figlio: la preadolescenza (12 anni),
che richiama tutti i precedenti momenti di distacco, cercheremo di capire quella
sensazione, da un lato, di aspettativa,
bisogno e ricerca di vicinanza, e allo stesso tempo di alterità, di separazione
e di solitudine, che si sperimenta e ci accompagna per lungo tempo, se non per
tutta la vita, come figli/e nei confronti della madre, e poi come madri nei
confronti dei figli/e.
Iniziamo ad analizzare tale
groviglio di sentimenti dal punto di vista dei ragazzini, sulla base dei loro
racconti.
Nel momento in cui essi abbandonano
il mondo protetto delle elementari, della famiglia, dell’infanzia, per entrare
in quello più ampio e meno sicuro della scuola media, e in particolare del
gruppo di pari, il primo scoglio che incontrano, con cui devono imparare ad
avere a che fare è il seguente: le “prese in giro”, cosiddette dai ragazzini, che
sono poi le critiche in senso più ampio, alcune delle quali colgono nel
segno di una loro debolezza, altre meno – come avverrà nelle critiche che continueranno a
ricevere da adulti – , ma sono espresse spesso con una certa spietatezza, e con una particolare sfumatura canzonatoria. Come se, da parte dei compagni,
fosse più importante il fatto stesso di fare le critiche e di vedere se e come
il proprio compagno o compagna le accetta, che il particolare merito della
critica. . . se non c’è, lo si inventa: ci sono ragazzini che si lamentano del
fatto che viene storpiato il loro cognome, e così vengono presi in giro, motivazione decisamente pretestuosa.
Effettivamente non è facile
accettare tali critiche-prese in giro, soprattutto in quel particolare momento
della vita, in cui si è spinti dalla crescita verso un difficile ma importante
cambiamento: da un modello relazionale osmotico-fusionale, in cui io-bambino percepisco
la mamma al mio servizio, pronta ad appagare i miei bisogni, a spianarmi la
strada dalle difficoltà; ad un modello più dialettico, la relazione con il
gruppo dei pari. Qui io sono uno del mucchio, in cui gli altri magari mi offrono anche complicità ed amicizia, ma allo stesso tempo non mi risparmiano critiche. Emergono
le nostre differenze, e il fatto che l’altro metta al centro delle sue
attenzioni i propri bisogni, non i miei, anche perché è affaccendato nella stessa crisi evolutiva, ma a modo suo.
Si può, dunque, reagire a tale
cambiamento con una profonda nostalgia per un
universo in cui per la mamma si è speciali, coccolati, oggetto di grandi
aspettative ma anche di grandi assoluzioni.
Si può, inoltre, interpretare tale
nuovo universo relazionale con una sfumatura paranoica: “ce l’hanno tutti con
me”, senza rendersi conto che gli stessi rimandi critici sono riservati anche
ai propri compagni.
In ogni caso si prova un’intensa
sofferenza: ogni critica viene vissuta come ferita narcisistica, cioè ferita
all’immagine di sé, come se portasse via un lembo di pelle. E quella
spietatezza canzonatoria, con cui i compagni continuano a muovere critiche, può
essere anche interpretata come un disinfettante doloroso ma necessario per
curare una ferita purulenta, quindi con un valore di spinta alla guarigione e
alla crescita.
Nel momento in cui il ragazzino accetta di confrontarsi con il
nuovo universo relazionale, e vi avverte anche delle potenzialità, ad es. lo
sperimentarsi in un rapporto paritario, prendendo iniziative, senza dover
rendere conto a mamma e papà; e asseconda così quella spinta alla crescita
anche psichica, propria della sua età, affronta il secondo scoglio:
la paura di sperimentarsi in
solitudine, e quindi di sbagliare, ma soprattutto il senso di colpa
nei confronti dei genitori per il fatto stesso di prendere tali iniziative.
Da un lato è richiesto il
coraggio di abbandonare alcune sicurezze, e di sperimentare: non mi trovo più
in un mondo protetto in cui se mi comporto come mi hanno insegnato mamma e
papà, sarò premiato. Nella gestione dei rapporti ad es. con il gruppo di pari
devo procedere per tentavi ed errori, accettare di farlo, e trovare soluzioni.
Ricordo una ragazzina marocchina
che è venuta a parlarmi. Si sentiva ed era effettivamente vittima di prese in
giro, apparentemente perché straniera, ma soprattutto in quanto impossibilitata
a rispondervi, a causa di un’educazione ricevuta molto rigida, che non
prevedeva espressioni di aggressività.
Ha dovuto inventarsi la
possibilità di essere, più che aggressiva, determinata – dicendo ad es. “ma guardati
tu!”, determinazione che non era prevista, almeno negli insegnamenti espliciti
della famiglia, per quanto riguarda il comportamento sociale femminile.
Ecco dunque presentarsi i sensi
di colpa nei confronti dei genitori per il fatto di non seguire più tutti i
loro insegnamenti, di non appagare più tutte le loro aspettative, non per
scarso affetto, ma perché si è chiamati
ad affrontare il nuovo universo sociale, a costruire la propria
identità.
Ci sono genitori che si lamentano
che i ragazzini rispondono loro male, o che semplicemente rispondono (ad es.
“quelle scarpe sono da vecchio, non me le metto”); ragazzini che desiderano a volte
uscire con gli amici, e sono meno adeguati alla programmazione degli impegni sportivi, prima mantenuti con più
coerenza. Ragazzini che si confrontano
con fratelli minori, che sembrano soddisfare maggiormente le richieste dei
genitori e si sentono in colpa perché loro non lo fanno più; questo non perché
non siano più “bravi bambini”, come talvolta sembrano credere, semplicemente
perché non sono più bambini. Devono occuparsi di affrontare il mondo, e
soprattutto di costruire la propria identità.
Come, dunque, il parto è doloroso
per mamma e bambino, anche il crescere passa attraverso sentimenti dolorosi,
urticanti, (ferita narcisistica, paura di sperimentarsi in solitudine e
di sbagliare, sensi di colpa), ma avviene comunque, grazie alla stessa naturale
spinta alla crescita; sempre che non vi siano troppi macigni che la impediscono.
Tali ostacoli hanno a che fare con condizioni interne al ragazzino o legate
alle dinamiche familiari, che aggravano, appesantiscono, rendono inaccettabili
i sentimenti dolorosi, di cui ho parlato.
Alle difficoltà del ragazzino, in
effetti, fanno eco quelle della madre, ad accettare la crescita e la
separazione da lei del figlio; sofferenze materne che hanno una profondo legame
e corrispondenza con quelle del minore.
La scoperta che il figlio inizi a
prendere come riferimento sé o il gruppo di pari, non solo più la famiglia o la
mamma, suscita innanzitutto un sentimento di paura e di ansia, in quanto
si percepisce il figlio più esposto ai pericoli del mondo, al di là del proprio
controllo e giurisdizione.
Tale sensazione di perdita di
controllo, porta a drammatizzare i rischi e le sofferenze che il ragazzino può
incontrare sulla sua strada. Ci sono
madri che esagerano la portata distruttiva di qualche piccolo insuccesso scolastico
del figlio, o di rimandi un po’ duri ricevuti da insegnanti o compagni,
pensando, e spesso sbagliandosi, che il proprio figlio non sia in grado di
affrontarle, pensando inoltre che sia compito del genitore spostare tutte le
possibili frustrazioni dalla strada del proprio figlio; mentre in realtà il
compito genitoriale è sempre più sostenerlo nella sua possibilità e capacità di
affrontarle.
C’è, però, un altro sentimento,
che si percepisce con meno immediatezza, da parte delle madri, e di chi le ascolta,
ma che risuona e ispira in profondità l’evolversi oppure lo stagnare della
crisi materna:
tale sentimento è, ancora una
volta, la ferita narcisistica, e il dolore della separazione: “io non sono
più così importante per lui”.
Dietro alle preoccupazioni delle
madri - “se mio figlio si fa trascinare dalle cattive compagnie, e diventa un
bullo?” Oppure “ho paura che la ragazzina non abbia personalità perché segue le
indicazioni delle amiche sul vestirsi”, “e non più le mie…” mi verrebbe da
aggiungere - , si cela in realtà il dolore del distacco, del vedere il figlio
nella sua alterità rispetto a me mamma, nella sua maggiore autonomia, e
soprattutto nel suo avere meno bisogno di me, in un futuro prossimo non averne
più per nulla.
Quella solitudine che sperimenta
il figlio, crescendo e facendo delle scelte, la sperimenta anche la madre, con
l’aggravio dell’essere chi subisce il distacco, in molti casi chi lo permette e
favorisce, essendo comunque quella che rimane, mentre il figlio salpa verso il
mondo e il futuro.
Talvolta è più difficile
accettare e favorire la separazione, vedere i figli crescere, per madri
casalinghe, o soprattutto per cui l’essere madri è il principale, se non
esclusivo oggetto di investimento e di ricarica affettiva. Per lo stesso motivo
è spesso più complesso favorire la separazione dell’ultimo figlio, perché ciò toglie
alla madre definitivamente un ruolo, che non può essere facilmente rimpiazzato.
In un certo senso, più sei brava
come mamma, più hai dato sufficientemente fiducia a tuo figlio e ne hai
favorito l’autonomizzazione, facendogli sentire sopportabili i suoi pesi, e non
scaricandogli addosso i tuoi, più lavori all’esaurimento del tuo ruolo, alla
finitezza, alla mortalità del tuo essere mamma.
Abbiamo visto come madri e figli si
trovino ad affrontare sentimenti simili.
Innanzitutto la paura e l’accettazione dell’insicurezza, del
procedere per tentativi ed errori, invece che sulla base di un modello già
collaudato. Ciò implica l’accettazione
che la vita, propria e dei figli, non è scevra da rischi, è in fondo
un’avventura - nel senso di dover affrontare ciò che avverrà (ire ad ventura)
senza conoscerlo in anticipo, e quindi l’accettazione della propria ignoranza,
che ci permette di procedere illuminando solo passo per passo, potendo
sbagliare e dovendo talvolta ricredersi.
L’altro importante sentimento
è la ferita narcisistica del passaggio
da un rapporto più fusionale, in cui ci si aspetta perfetta corrispondenza
fra me e l’altro, fra i miei bisogni e le risposte dell’altro, ad una relazione
più dialettica, in cui si manifestano le differenze individuali, la non
corrispondenza fra le proprie aspettative e le risposte che otteniamo, e dunque
la necessità di mediare.
In realtà tale passaggio non è
caratterizzato da un’alternativa secca, ma da gradualità e sfumature: nel
rapporto fra madre e figlio si introduce fin dall’inizio un po’ di dialettica,
di coscienza dell’alterità; allo stesso tempo il rapporto di amicizia è anche
un po’ fusionale, fondendo e confondendo
una parte di sé nell'altro attraverso giochi di identificazioni
reciproche.
In questa prospettiva, l’inevitabile
nostalgia del primitivo e primario rapporto fusionale, può trasformarsi da
macigno, che blocca la crescita, in fondamenta su cui costruire un’altra relazione,
dialogica, fra madre e figlio, questa sì che può essere coltivata e svilupparsi
nel corso della vita, conoscendone i limiti.